Testo di Francesco Sabatini
Foto di Sara Furlanetto
L’assonanza dei termini “coltura” e “cultura” non è un caso: quest’ultima infatti, ha le sue radici nel verbo “coltivare”. Nelle sue numerose accezioni, la cultura fa anche riferimento a quel senso di comunità legata da comportamenti e conoscenze. Tornare a coltivare la terra significa riappropriarsi di una cultura legata alle proprie radici e che guarda al futuro. Questo ragionamento astratto ci si è palesato concretamente in Molise, dove abbiamo incontrato le esperienze della Fattoria Griot e dell’Azienda agricola Masseria Pasqualone.
A Roccamandolfi, alle pendici del Matese, in una serata a base di polenta onta, litri di vino e schitarrate, abbiamo conosciuto Fabrizio Russo: il fondatore della Fattoria Griot - capelli e barba lunghi da cantante metal. Tra un boccone e l’altro siamo finiti a parlare con lui del concetto di biopotere in Foucault– argomento della sua tesi in Filosofia all’Università di Napoli. Dopo gli studi ha iniziato a lavorare presso un centro di accoglienza per migranti a Bojano, suo paese di origine.
Grazie ad un amico che aveva molta terra inutilizzata, a Fabrizio è venuta l’idea di cominciare a coltivare ortaggi da vendere al mercato di Bojano con i migranti, per instaurare un processo di integrazione con la gente del posto: “la vecchietta di Bojano che si compra l’insalata da Ousmane, che è senegalese, comincia a parlaci e ad avere un rapporto con queste persone”. Da Bojano si sono spostati fino a Campobasso, riscoprendo i numerosi piccoli mercati dei paesi vicini, e così che è nata la Fattoria Griot. Griot è il nome di una classe sociale di cantastorie-artigiani del Mali, una sorta di “santoni-musicisti” – si accompagnano con la Kora, uno strumento a corde con la cassa armonica tradizionalmente fatta con una zucca.
L’iniziativa ebbe ottimi riscontri fin dall’inizio, ma dopo poco i decreti sicurezza imposero la chiusura dei centri d’accoglienza e la Fattoria Griot si trovò spogliata del suo scopo iniziale. Molti dei ragazzi ospiti nei centri accoglienza si trasferirono in altri paesi, mentre i pochi che rimasero si trovarono in un limbo di irregolarità, risolto con una sanatoria fatta per rispondere al bisogno di manodopera delle grandi filiere dell’agricoltura.
Il progetto sembrava destinato ad arenarsi, ma ormai le basi erano state poste. Grazie all’intervento di Francesco Candigliota, un ragazzo di Bojano appassionato di agricoltura, il progetto ha potuto continuare a fare della coltivazione un’azione sociale. Oggi, la Fattoria Griot produce ortaggi biologici attraverso la coltivazione biointensiva, le cui file fitte riescono a garantire una produzione abbondante - e sono anche uno spettacolo per gli occhi. Il metodo biointensivo è un metodo per coltivare in maniera moderna nel rispetto della natura: “Siamo ancora legati all’idea del cappellino di paglia e che l’agricoltura sia solo sacrificio, senza soddisfazioni o possibilità economiche. Cioè la schiena te la spacchi lo stesso, però attraverso dei nuovi metodi e l’organizzazione diventa qualcosa di diverso, di praticabile e soddisfacente” ci dice Fabrizio, mentre Griot, un cucciolo di pastore abruzzese, continua ad abbaiare correndogli tra le gambe.
È una coltivazione che non mira a fare grandi numeri, ma a cambiare le abitudini delle persone per lasciare qualcosa sul territorio: soldi, idee e un senso di comunità. “Diventa una scelta culturale, la grande distribuzione o il piccolo mercato”. Oggi la Fattoria Griot è una società agricola indipendente che lavora su un doppio binario: uno produttivo-agricolo e l’altro sociale. “Lavorando su un prodotto agricolo lavori sull'ambiente, sulla cultura” conclude Fabrizio a tavola mentre assaggiamo la ciambotta: un mix di verdure stufate arricchito con la salsiccia sotto sugna – tipico metodo di conservazione molisano.
Salutiamo Bojano con un bel carico di verdure per continuare il nostro cammino verso la Puglia. La Masseria Pasqualone si trova in Campania, giusto un passo al di là del confine molisano, ma fa praticamente parte del comune di Riccia. Qui, in questo incrocio tra regioni, abbiamo incontrato Maria Antonietta Moffa, un vulcano di energia. Il problema geografico lo risolve con una frase che è tutto un programma: “Io mi sento Sannita, non ho confini mentali e qui, non ho confini. Noi siamo il territorio e ogni nostra idea fa il territorio”.
Maria Antonietta ha ripreso in mano l’azienda agricola del nonno Antonio, dopo che è stata saltata una generazione per via del progresso che sembrava aver “salvato” dal duro e sporco lavoro della terra. “L’assurdo del percorso che abbiamo fatto è che adesso ci cercano”, ci dice Maria Antonietta con il sorriso che le arriccia il naso. Le tradizioni del mondo contadino sono diventate il mezzo attraverso cui Maria Antonietta vuole raccontare la storia della sua famiglia e del suo territorio, per rendere consapevoli le persone che continuano ad abitare un’area colpita da un forte spopolamento.
Quella della Masseria Pasqualone è una filiera corta, anzi cortissima: quasi tutto quello che viene prodotto finisce sulla tavola del ristorante. Seguendo il motto che le ripeteva il nonno Antonio: “Lascia perde u commercie, che magna se magna sempre”. Più che in un ristorante, sembra di stare a casa; Maria Antonietta è l’ospitalità fatta persona e soprattutto è una superba cuoca. Ci ha coccolato con i suoi piatti per alcuni giorni, in un sapiente abbinamento di tradizione, prodotti e creatività. “Io non voglio vendere, a volte il tuo prodotto devi saperlo valorizzare sulla tua tavola” ci dice. Il piatto più rappresentativo è sicuramente il Parrozzo: una ricetta del mondo contadino riscoperta proprio da lei. Si tratta di una sorta di panino di farina di grano turco che viene svuotato per essere farcito con ogni ben di Dio (peperoni fritti, salsicce di fegato, pancetta, etc). Era il contenitore del companatico da portare nei campi, che costituiva l’intermezzo tra la colazione delle quattro e mezzo e il pranzo – un modo per riprendere le energie consumate dal duro lavoro.
Il grano turco, con cui è fatta la farina per il parrozzo, è la stessa varietà che coltivava il nonno Antonio: si tratta del mais Agostinello, un seme a bassissima resa che però ha un sapore unico. Con il passaggio di testimone, Maria Antonietta ha subito optato per un’agricoltura biologica, mantenendo però gli antichi saperi connessi con la natura: come faceva il nonno, tra i filari di granoturco vengono messi i fagioli, perché da una parte il legume è un azoto fissatore e dall’altra il grano turco permette di mantenere l’umidità necessaria per creare un buon microclima per i fagioli. “C'era una logica, perché lì era tutto empirismo, osservavano... adesso c'è conoscenza e scienza, quindi è un po' diverso, però riusciamo a capire perché lo facevano”.
Maria Antonietta è un fiume in piena ed ascoltarla è un piacere, ci racconta dei calzoni di San Giuseppe, ravioli fritti ripieni diceci passati al setaccio, miele e cannella; ci racconta delle numerose iniziative a cui partecipa: Campagna Amica, Slow Food, Donna Impresa, etc; di quando l’antropologo Vito Teti le disse di continuare a coltivare quel peperoncino perché molto raro; ma soprattutto racconta di come sta cercando di sensibilizzare i suoi conterranei a fare rete e a valorizzare i loro prodotti: “Così ho detto ai vicini, invece di vendere il maiale, trasformate, fate i prodotti, fate le soppressate!”.
Mentre camminavamo tra le campagne del Molise abbiamo incontrato numerose persone a contatto con la terra e i loro volti, i loro gesti ci sono sembrati l’espressione più genuina del carattere di questa regione. Tra passato e futuro, tra tradizione e innovazione, la coltivazione continua ad essere l’humus della cultura. Un processo che si instaura in una comunità e che contribuisce alla vitalità e alla capacità di reinventare il futuro di un territorio. Tornare alla terra, in questi due casi, significa mettere le radici di qualcosa che va al di là di un mero prodotto: è un modo per nutrire le fondamenta di una società, come quando si prepara il terreno per la raccolta.