Testo di Francesco Sabatini
Foto di Sara Furlanetto e Diego Marmi
Avevo sempre immaginato la penisola sorrentina come un piccolo promontorio in cui il mare fosse assoluto protagonista. Mi sbagliavo alla grande. Tra il golfo di Napoli e quello di Salerno c’è un vasto territorio dominato dalla catena dei Monti Lattari: un pezzo di Appennino che si leva dal mare creando la vertiginosa Costiera Amalfitana.
Nella Penisola Sorrentina abbiamo incontrato due realtà che ci hanno raccontato cosa vuol dire coltivare e allevare in questo territorio così speciale.
Siamo arrivati in Campania in pieno luglio. Avevamo appena vinto l’Europeo di calcio e la pandemia sembrava un lontano ricordo, quindi, la Costiera brulicava di persone. Guidare per le stradine inerpicate tra montagna e mare con il nostro Santos (il fido furgone della spedizione Va’ Sentiero) non era una piacevole passeggiata, trovare un posto dove dormire nemmeno. Per fortuna, un angelo ci è venuto in soccorso: Elio Cafiero. Elio, dopo aver passato il lockdown sognando di mettersi in cammino con noi, si è offerto di ospitarci nel suo giardino a Meta di Sorrento.
Tra alberi di aranci e limoni abbiamo trovato un piccolo angolo di paradiso in cui rifugiarci dal trambusto di traffico e persone durante il nostro soggiorno nella penisola. Mentre camminavamo sulla cresta dei Monti Lattari più volte veniva nominato il Sentiero degli Dei: una mulattiera di circa otto chilometri che mette in collegamento Positano con Bomerano, frazione nel comune di Agerola – noto per il famoso fiordilatte.
Non potevamo perderci quello che, a detta di tanti, è una vera e propria meraviglia di cammino. Per questo, ancora grazie al caro Elio, dopo una tappa ci siamo messi in macchina verso la costiera. Solo chi è nato sulla penisola sa come muoversi nel traffico estivo, evitando di rimanere imbottigliato dietro un autobus di linea incastrato nelle strette curve a picco sul mare. Rilassato, mi godevo la sinuosa strada della Costiera Amalfitana che ad ogni curva mostrava una meraviglia. In lontananza, ammiravo le isole Li Galli, leggendario luogo in cui Ulisse sentì il canto delle sirene e dove, nel Novecento, vissero numerosi personaggi illustri, su tutti il ballerino russo Nureyev.
Durante la salita verso Bomerano, consigliati da Elio, abbiamo deciso di fare una sosta a Furore nelle cantine Marisa Cuomo, le cui vigne abbelliscono ulteriormente il panorama del Sentiero degli Dei. Siamo stati accolti da Alfonso Camicia, che nelle cantine si occupa dell’accoglienza ai visitatori. Tra un gruppo e l’altro, ha trovato il tempo per farci fare un giro della cantina e raccontarci la storia di questi “eroici” viticoltori.
La viticoltura eroica è quella coltivazione della vite fatta sopra i cinquecento metri di altitudine con una pendenza minima del trenta per cento. Qui, nonostante il mare sia a un passo, siamo a ben cinquecentocinquanta metri e la pendenza è del sessantacinque per cento! I vitigni della piccola cantina, anch’essa abbarbicata tra la strada e la roccia, sono sparsi per tutta la penisola in piccoli fazzoletti di terra ricavati attraverso suggestivi terrazzamenti.
Quelli della Costiera Amalfitana risalgono al periodo successivo alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente: finita la protezione imperiale, le coste della penisola furono preda di continue incursioni da parte dei saraceni e dei barbari; per questo, gli abitanti delle numerose ville patrizie che si trovavano tra Amalfi e Positano si rifugiarono più in alto. La ripidità del terreno rendeva impossibile la coltivazione, ma grazie alla tecnica del terrazzamento i contadini riuscirono a “staccare terreno dalla roccia”. Costruendo i muretti di pietra a secco crearono piccoli fazzoletti di terra che andavano sfruttati al massimo: così si introdusse la pergola, coltivazione in cui la vite forma un tetto di foglie da cui pendono i grappoli - in epoca romana il pergolato era usato soprattutto a scopo ornamentale.
Il sistema della pergola è in uso ancora oggi nei vigneti di Marisa Cuomo e in tutta la costiera viene utilizzato anche per la coltivazione dello Sfusato Amalfitano - varietà di limone che, insieme all’Ovale di Sorrento, ha rappresentato la fortuna dei commerci della penisola. Oltre che proteggere dal sole, il pergolato permette l’uso intensivo del territorio. Un tempo, infatti, il contadino piantava i suoi ortaggi sotto il limoneto o il vigneto. Lungo tutta la penisola è facile imbattersi in lunghi pali di legno accatastati ai bordi delle strade: sono lunghi tronchi di castagno, tagliati nei fitti boschi dei Monti Lattari, che servono alla costruzione di vigneti e “giardini” di limoni.
La realizzazione dei muretti a secco per i terrazzamenti permette, inoltre, di raccogliere l’acqua dall’aria e dal terreno: l’escursione termica generata dalla fredda temperatura tra le pietre del muretto - al riparo dal sole e contatto con la viva roccia - e il caldo esterno generano la condensa che permette di non irrigare i vitigni. Alfonso ci spiega che nei vitigni della cantina non si fa nemmeno irrigazione di soccorso - metodo usato in caso di forte caldo o siccità. Questa favorevole condizione è legata anche alla profondità delle radici che si infilano nei lembi della roccia. La fillossera non ha intaccato la coltivazione locale grazie al terreno ricco di sabbie del Vesuvio: per questo motivo, sono ancora presenti viti molto antiche. Alfonso ci mostra orgoglioso un enorme tronco che fuoriesce orizzontalmente dal muretto a secco, la sua età si aggira intorno ai centocinquant’anni!
Abbiamo ascoltato i racconti di Alfonso al fresco della cantina scavata a mano nella roccia negli anni Ottanta, quando Andrea Ferraioli decise di regalare, come dono di nozze, questa cantina a sua moglie Marisa Cuomo. Qui ogni anno arrivano botti nuove dalla Francia e dentro vi riposa il vino simbolo della cantina: il Fiorduva. Si tratta di un bianco ricavato da un blend di vitigni autoctoni: il rivolo, il ginestro e il fienile. Prima di salutarci, Alfonso ce ne ha regalato una bottiglia da condividere con tutto il gruppo di Va’ Sentiero.
Il nostro viaggio è proseguito in macchina verso Agerola per poi raggiungere Bomerano, dove inizia il mitico cammino. Ad accoglierci c'era un cavallo e le parole di Italo Calvino: “Partendo proprio dal Sentiero degli Dei, da quella strada sospesa sul magico golfo delle Sirene, solcato ancora oggi dalla memoria e dal mito”.
L’imbocco del sentiero gode di un panorama incantevole e dopo la prima curva si apre sulla destra una enorme grotta, detta “del Biscotto”. In questo luogo suggestivo abbiamo incontrato Antonio Milo, l’ultimo pastore del Sentiero degli Dei. Antonio è un vero e proprio intrattenitore e subito ci ha spiegato che il nome della grotta è legato al “biscotto d’Agerola”: un pane integrale, secco e senza sale, che anticamente i marinai della Repubblica di Amalfi portavano in viaggio - prima di mangiarlo, lo intingevano nell’acqua del mare per ammorbidirlo e salarlo. Le pareti della roccia ricordano gli alveoli del tipico pane agerolese.
Antonio ci ha raccontato la storia di questo territorio prima dell’esplosione turistica. Molti erano i contadini e i pastori ma, negli ultimi cinquant’anni, quel tipo di vita è quasi scomparsa. Antonio ha trentatré anni ed è figlio d’arte: nella sua famiglia fanno i pastori da quattro generazioni, allevando gli animali lungo quella mulattiera che oggi è diventata il Sentiero degli Dei.
Negli anni il percorso è divenuto man mano molto frequentato; dapprima furono i tedeschi, poi, man mano, è arrivato il turismo di massa - non è raro incontrare persone in infradito che vi si avventurano. Antonio ha capito che grazie al turismo poteva raccontare il mestiere del pastore, attrarre i turisti nel suo mondo arcaico, vicino alla natura e agli animali. Perciò ha comprato un vecchio rudere abbandonato e lì oggi accoglie i turisti di passaggio; le guide portano i loro gruppi e se Antonio non c’è, prendono i formaggi lasciando un’offerta.
“Voglio ospitare le persone a casa mia e fargli vedere il mio lavoro. Io non vendo niente, non ho il “pos”, chi vuole lascia un’offerta. Ma quell’offerta è per la mia storia, che io racconto. Perché quel formaggio, quel salume, di quei maiali che vivono lungo il sentiero, non ha prezzo. Io lo regalo alla gente per far capire che noi pastori esistiamo ancora.”
Antonio alleva le capre di razza napoletana ma tradizionale di Agerola è l’allevamento bovino, tanto da avere una razza autoctona: la vacca agerolese - con cui si producono il provolone del monaco e il fiordilatte di Agerola, due prodotti caseari d’eccellenza.
La storia della vacca agerolese è legata alle avventurose vicende del generale mercenario Paolo Avitabile (1791-1850), nativo di Agerola. Dopo essersi distinto in numerose battaglie sotto il Regno di Napoli governato da Gioacchino Murat, decise di partire verso oriente al servizio dei potenti locali - le guerre napoleoniche erano finite e molti condottieri europei erano chiamati ad ammodernare gli eserciti locali. Dopo diverse esperienze, dalla Turchia all’India, approda a Peshawar, la capitale del Pakistan. Qui ancora oggi per spaventare i bambini viene nominato il nome Abu Tabela, la traduzione in lingua pashtun di Avitabile. Infatti, il generale riuscì a domare la città, in perenne stato di ribellione, con metodi molto cruenti ma efficaci tanto da meritarsi il timore dei regnanti e della popolazione. Durante questo periodo, il generale aiutò l’esercito inglese a sedare le rivolte in Afghanistan e, in questa occasione, tra le ricompense gli furono donati alcuni capi di razza Jersey. Una volta tornato ad Agerola, tra le immense ricchezze accumulate portò con sé i capi di manzo inglesi. La razza Jersey fu incrociata con la razza agerolina - razza podolica nata da incroci iniziati dai Borboni-, e così nacque la razza agerolese. Purtroppo, il generale non potè godere del frutto delle sue avventure perché morì poco dopo il suo rientro in patria - probabilmente avvelenato dalla giovane moglie. Leggenda narra che l’allevamento bovino di Agerola si fa risalire ai Picentini, parte della popolazione picena che fu deportata nell’attuale Campania dai romani. Il nome Monte Lattari (Lactaria Montes) deriverebbe proprio dal prezioso latte di queste zone, la cui bontà è forse dovuta proprio alla scarsità del foraggio che costringe gli animali ad essere sempre in moto.
Dopo aver parlato a lungo con Antonio abbiamo proseguito lungo un tratto del Sentiero degli Dei. Le ore sono volate e dopo l’ennesima curva ci siamo ritrovati davanti lo spettacolo della costiera dorata dal sole del tramonto. Allora ho capito il perché di quel nome così aulico: la bellezza del paesaggio ti proietta in una sorta di mitologica età dell’oro, in cui una vita dai ritmi più lenti può bastare a sé stessa . Ad aspettarci, lungo la strada del ritorno, era però il traffico e il caos della costa, ormai il vero elemento caratteristico della penisola. Fortunatamente ad attenderci c’era il giardino di Elio, con la sua pace e la cena preparata dalla mamma: in un bel vassoio in ceramica blu, le foglie di limone scaldate sulla piastra profumavano i deliziosi gamberetti disposti sopra.
Finalmente a tavola, nel fresco pergolato, sotto i limoni sorrentini e accanto ai resti di un muro romano, ci siamo goduti la bottiglia di Fiorduva: il gusto intenso ma delicato è stata la perfetta sintesi di questo posto mitico tra mare e montagna.