Testo di Francesco Sabatini
Foto di Sara Furlanetto e Andrea Buonopane
Era una splendida mattinata di fine settembre quando, dopo cinque mesi di montagna, siamo tornati a rivedere il mare. Dalla punta del Marguareis si vedevano le navi solcare le acque e all’orizzonte il profilo della Corsica. Sulle Alpi Marittime, nel comune di Ormea, in provincia di Cuneo, abbiamo concluso la lunga traversata del Piemonte. In Liguria ci aspettava l’Alta Via dei Monti Liguri, ricchi di boschi sui crinali che separano il Mar Tirreno dalla Pianura Padana. Ma soprattutto, ci aspettava l’autunno con le sue piogge e con i suoi riti antichi: è il periodo in cui i boschi si popolano di cacciatori e cercatori di funghi.
Ancora in Piemonte, poco sopra Limonetto, per la prima volta dall’inizio della spedizione il nostro sentiero ha incrociato quello dei cacciatori. Scendendo dal passo di Ciotto Mien, abbiamo incontrato un anziano signore che si era infortunato (fortunatamente, un suo compagno ci ha rassicurati circa l’arrivo dei soccorsi). Ci siamo intrattenuti con loro, stupiti e curiosi di un sacchetto di plastica attaccato a uno zaino: conteneva un camoscio appena cacciato. Un’immagine che risultava impressionante!
Il camoscio è logo del Parco delle Alpi Marittime e poco prima avevamo incontrato un gruppo di esemplari che ci osservavano durante la nostra salita al passo. I cacciatori ci hanno spiegato che ogni anno viene fatto un censimento delle specie animali che popolano il Parco perché il numero degli esemplari presenti, camosci compresi, deve essere sempre controllato e, sulla base dei dati acquisiti, viene varato un piano che prevede l’abbattimento di un certo numero di animali. In questo modo, data l’assenza di predatori naturali, come i lupi che solo ora stanno cominciando a tornare in quei territori, l'equilibrio naturale nel Parco viene rispettato. Con i cacciatori, profondi conoscitori del territorio, ci siamo intrattenuti a lungo e siamo riusciti a farci svelare finanche alcuni segreti culinari: tipici del luogo sono la cotoletta, lo spezzatino, gli spiedini e il salame di cinghiale, il capriolo ha una carne particolarmente delicata e può essere consumata cruda battuta al coltello.
Poco più avanti, abbiamo incontrato altri gruppi che – raccontavano – avevano trascorso tutto il giorno in montagna sparando un solo colpo. Lungo l’Alta Via dei Monti Liguri ci è capitato spesso di imbatterci anche nelle battute di caccia al cinghiale. Le squadre, composte da venti-trenta cacciatori, si dividono in due gruppi: il primo rimane appostato in una zona verso la quale il secondo spinge i cinghiali. Vedendoli la prima volta abbiamo pensato si trattasse di persone in cerca di solitudine: stavano sul crinale per ore e ore, a osservare ogni singolo movimento o rumore della natura, attendendo silenziosamente l’arrivo della preda.
Non vogliamo dare giudizi o esprimere riserve nei confronti della caccia, un’azione il cui obiettivo è l’uccisione di un essere vivente. Sta alla sensibilità di ciascuno stabilire cosa sia giusto o meno. Durante quegli incontri però noi abbiamo scoperto aspetti che non avevamo mai preso in considerazione: la caccia può aiutare a preservare gli equilibri della natura, è una pratica radicata nella cultura e nella storia dell’uomo e custodisce una conoscenza profonda del territorio. Ancora, l’attesa affrontata dalle squadre dei cacciatori, appostati silenziosi e immobili per ore nei boschi o sui crinali, evoca una sorta di sacralità che ci ha toccati e indotti a sospendere il giudizio.
Proseguendo nel nostro cammino siamo arrivati a Cadibona, con la consapevolezza che il nostro viaggio fosse di fronte a una svolta e il clima sembrava confermarlo, visto che, dopo giorni di nebbia e freddo, il tempo sembrava essere più clemente. Dopo cinque mesi, ci lasciavamo alle spalle le Alpi e gli Appennini ci davano il benvenuto con una giornata di sole. Cadibona è il punto di incontro tra le due catene (per quanto i paesi dei dintorni si contendano da secoli questo onore geografico). Dopo i sapori della selvaggina, ecco le olive taggiasche, le albicocche di Valleggia (presidio slow food la cui raccolta dura solo venti giorni l’anno), la formaggetta morbida e cremosa e tanti vini diversi (tra cui la Granaccia, vino rosso di origine spagnola).
Lasciata Cadibona, purtroppo, il clima ci ha tormentati ancora costringendoci, per la prima volta in cinque mesi, a fermarci. Le forti piogge, d’altra parte, hanno fatto crescere migliaia di funghi il cui profumo, misto alla pioggia, inebriava il nostro sentiero. In quel territorio, i funghi sono presenti su tutte le tavole e vengono cucinati in centinaia di modi diversi.
Negli ultimi mesi ci è capitato di assaggiare diversi tipi di funghi preparati in svariati modi, come le mazze di tamburo fritte a Casa Loa in Val Maira o le tagliatelle verdi con il sugo di finferli del Rifugio Osteria Alpina di Codera. Nel mese di ottobre però sulle tavole regna incontrastato il fungo porcino. Alla Guesthouse Drago Bianco, dove abbiamo trovato rifugio dalle incessanti piogge all’ombra di un enorme forno a forma di drago sputafuoco, li abbiamo assaggiati preparati in ogni modo: crudi, con la pasta, con le patate e anche fritti. C’era una tale abbondanza di porcini da poterli mangiare sia a pranzo sia a cena.
Il porcino sembra oscurare completamente gli altri funghi ed è considerato da tutti il fungo per eccellenza. Mauro Anselma, del B&B Casa Magalì, ci ha detto: “Il mondo dei funghi è estremamente vario, complesso e pericoloso. Bisogna possedere solide competenze”. A tale proposito, un fungaiolo esperto ci ha raccontato che è possibile ottenere un perfetto misto di funghi: per averlo occorre aggiungere un piccolo fungo piccante, chiamato anche “fungo peperone”, che va preso in piccole dosi perché non sia pericoloso.
Tra le Alpi liguri e gli Appennini abbiamo scoperto dei paesaggi nuovi rispetto a quelli visti nei mesi precedenti. Abbiamo scoperto una montagna diversa e meno conosciuta. Il percorso ha lasciato in noi degli interrogativi e dei dubbi irrisolti e ci ha fatto conoscere tradizioni millenarie.