Testo di Francesco Sabatini
Foto di Diego Marmi
“Mio padre ha sempre coltivato la vite per passione, come si faceva una volta. Semplicemente per portare avanti la tradizione”. A parlare è Simona Belmonte, giovane vignaiola di Altomonte, borgo in provincia di Cosenza.
Simona l’ho conosciuta al Master in Filosofia del Cibo e del Vino dell'Università San Raffaele di Milano, dove eravamo compagni di corso. Da diversi anni ormai aveva lasciato il piccolo paese del Sud e si era trasferita nella “city” per studiare Marketing e Comunicazione. Simona era ormai perfettamente calata nella routine milanese: lavoro, aperitivo, riposo nel weekend e grandi traversate per tornare a casa nelle festività. Eppure, qualcosa di più profondo ha continuato a fermentare dentro di lei: il bisogno di un legame rinnovato con la sua terra e con le sue radici.
Durante il master, Simona mi raccontava del suo territorio, sospeso tra mare e montagna, e della bontà dell’olio e del vino che da sempre si produceva in famiglia. Insieme alle due sorelle, aveva deciso di trasformare la produzione casalinga in qualcosa di più strutturato.
Alla fine del percorso di studi, io presentai un progetto enogastronomico per Va’ Sentiero e lei il restyling del marchio di famiglia: L’antico Fienile Belmonte. C’eravamo lasciati nel dicembre 2018 con la promessa che, una volta in Calabria, con il team di Va’ Sentiero saremmo andati a visitare la sua azienda vinicola.
A tre anni di distanza quel giorno è arrivato e molte cose sono cambiate, io avevo quasi ottomila chilometri sulle gambe – con le relative conseguenze - e lei un gran bel pancione. Dopo essere tornata ad Altomonte, è scoppiato l’amore con Luigi Perrone, il suo più caro amico dell’infanzia: “Da ragazzini avevamo sempre detto che una volta grandi avremmo fatto qualcosa insieme”, mi ha detto sorridendo Simona. Anche Luigi, dopo un’esperienza nel mondo farmaceutico a Firenze, ha deciso di tornare a casa a lavorare con la terra producendo frutta. Questo ultimo incontro con Luigi è stato prezioso anche per lo sviluppo del progetto della cantina. Infatti, le due sorelle pian piano hanno lasciato a lei le redini dell’Antico Fienile Belmonte e così Simona si è trovata a dover gestire da sola la cantina. Oltre al supporto del compagno Luigi, c’è sempre il padre Gianfranco che rimane la guida sapiente dell’azienda: “le sue conoscenze del territorio e la sua esperienza sono fondamentali nella gestione dei vigneti”.
Dopo una breve chiacchierata ci siamo messi in macchina per raggiungere i vigneti dove si stava svolgendo la vendemmia. Durante il viaggio ammiravo il paesaggio che avevo davanti: da una parte le montagne dell’Orsomarso – catena del massiccio del Pollino, dall’altra l’enorme piana di Sibari, che si stende fino al mare ionico. Sibari fu un’importantissima colonia della Magna Grecia dedita al lusso e ai piaceri, tra questi vi erano già il vino e l’olio.
Le condizioni climatiche create dalla vicinanza tra mare e montagna hanno reso questo territorio un luogo fiorente in cui molti popoli si sono insediati nel corso dei secoli. Lungo la strada abbiamo attraversato il paese arbëreshë di Lungro. Gli arbëreshë sono gli albanesi d’Italia, una minoranza etno-linguistica che ha mantenuto i suoi riti e costumi dal XV secolo fino ai giorni nostri. Fuggiti a causa dell’invasione ottomana del Regno d’Albania fondarono numerose città nel Sud Italia, in particolare in Calabria. Lungro, oltre alla sua origine albanese, vanta una curiosa tradizione: quella del mate. I lungresi che tornarono dall’emigrazione in Argentina riportarono con loro la tipica bevanda nazionale, che in poco tempo divenne parte del costume locale. Simona durante l’estate, nonostante le raccomandazioni del medico per la gravidanza, si è fatta in quattro per organizzare eventi ed iniziative per raccontare questo straordinario territorio, tra cui la degustazione di mate nei suoi vigneti.
Tra una chiacchiera e l’altra, al vigneto ci siamo arrivati in ritardo, infatti la vendemmia era già finita. Ci siamo però goduti un momento di relax tra le colline esposte a Sud-Est, in un’area isolata dal traffico dove si sentiva soltanto il fruscio del fiume interrotto di tanto in tanto dagli spari dei fucili da caccia.
Ad aspettarci tra i filari c’era Luigi, che ci ha accolti prima di correre via a consegnare la frutta in giro per la provincia di Cosenza. Questo vigneto lo hanno preso insieme come simbolo della loro avventura comune. Qui nell’Alta Calabria si coltivano vitigni come il Malvasia, il Mantonico, il Greco Bianco, il Pecorello, il Guarnaccia e l’Aglianico; ma, tra i tanti vitigni autoctoni, il principe indiscusso è il Magliocco.
Il Magliocco è un vitigno ancora poco noto al pubblico nazionale; infatti, per molto tempo è stato relegato al consumo familiare. Simona crede fortemente alle spiccate qualità di questo vitigno, le cui caratteristiche non sono semplici da rintracciare, sia per la varietà del territorio su cui si coltiva, sia per la mancata visione comune nel processo di vinificazione. Per questo, insieme ad altri giovani produttori hanno dato vita al VAC: Vignaioli Artigiani di Cosenza. Il gruppo vuole fare rete per cercare di valorizzare quello che è un vero e proprio diamante grezzo, un vino ancora inesplorato e dalle grandi potenzialità. In passato, il Magliocco è stato sempre vinificato insieme ad altre uve non valorizzando a pieno le sue caratteristiche. Simona con gli altri componenti del VAC sono al lavoro per fondare un’Accademia del Magliocco per catalogare le peculiarità principali del vitigno.
Fare rete è fondamentale per riuscire a raccontare il vino dal punto di vista di chi il vino lo vive. “Il vino si fa in vigna, l’esperienza si fa in cantina” ci ha detto combattiva Simona. Per conoscere bene un vino bisogna vivere il territorio in cui prende vita, e concordo con Simona anche sul fatto che l’enologia non può esser una competizione ma è un’esplorazione - come ci ha insegnato Giampaolo Gravina, autore di molte guide di vini, durante il nostro master.
Tornati in azienda per la degustazione abbiamo scoperto l’origine del nome dell’Antica Cantina Belmonte: la cantina sorge nel vecchio casale costruito dal nonno per la raccolta del fieno per il bestiame. Sul tavolo della fresca cantina ci attendevano le bottiglie con le nuove etichette - la cui anteprima avevo visto durante il master. Rimandi simbolici agli elementi del territorio: un sole stilizzato, le onde del mare, delle colline, i filari dei vigneti. “In più, possono essere visti sotto un punto di vista letterario. In maniera scomposta presentano alcune delle lettere del vitigno”, ci ha spiegato Simona. Simboli che ricordano le lettere dell’alfabeto greco, un rimando al mondo ellenistico e al suo apporto alla cultura calabrese. Già influenzata da quella degli Enotri, popolazione di origine greca precedente alle colonie della Magna Grecia, che molti ritengono essere stata la prima importatrice della tradizione vitivinicola in Calabria.
Dopo tanto parlare di concetti è arrivato il momento dell’assaggio. Siamo partiti con il Greco Bianco: un vino bianco composto dall’80% di uve di Greco Bianco (che non ha niente a che vedere con il Greco di Tufo) e un 20 % di uve di Mantonico, che conferisce all’aromatico Greco Bianco la giusta sapidità e profondità. Questo vino è uno degli esperimenti che hanno introdotto Simona e Luigi per portare un’ondata di freschezza all’azienda; infatti, il padre Gianfranco il bianco non lo vinificava: “faceva come era solito fare da tradizione antica, l’assemblaggio con il vino rosso. Si mischiava tutto ma era un vino naturale al 100%, ogni volta era una sorpresa”. Le uve che compongono il Greco Bianco vengono raccolte nelle primissime ore del mattino quando c’è ancora la rugiada sul grappolo. “Dopo vari test fatti, ci siamo accorti che con la rugiada il risultato è totalmente diverso”, ci ha assicurato Simona.
Come secondo vino abbiamo assaggiato un Aglianico vinificato in bianco: un rosato dal colore spinto, dai sentori di frutti rossi ed esotici che al palato rimane leggero. Anche dietro questo vino c’è un grande lavoro e ogni annata ha rivelato a Simona i suoi miglioramenti. Sia il bianco che il rosato sono vini che vanno bevuti giovani, lo stop imposto dalla pandemia ha costretto molti vini a riposare in bottiglia. Un duro colpo per la giovane impresa.
Dopo qualche bicchiere, riaffiora il pensiero di questo nuovo incontro con Simona, dopo tre anni vedere il risultato di questo lungo lavoro è stata una cosa meravigliosa.
Come conclusione abbiamo finalmente assaggiato il Magliocco, subito sconvolgente. Al naso sembrava un vino affumicato, al gusto, invece, forti erano le note di cacao, liquirizia, cuoio e i sentori legnosi - un vino che non passa certo inosservato. Avevo dato per scontato che avesse subito un processo di affinamento in botte, ma Simona mi ha assicurato che viene vinificato in purezza in acciaio. Gli odori, i sapori e il carattere speziato sono qualità del vitigno. Il corpo importante si presta all’invecchiamento in bottiglia e Simona ci ha raccontato delle belle sorprese avute nello stappare vecchie bottiglie del padre. Il carattere di questo vino manifesta alla perfezione il gusto del calabrese, un vino importante che viene sempre abbinato a piatti succulenti e grassi. Un vino che ha solo il bisogno di essere raccontato per essere conosciuto, ad imprimersi chiaro nel palato degli assaggiatori ci pensa da solo.
Dopo un tour nel bel borgo di Altomonte, rinomato per il Festival Euromediterraneo, concludiamo la nostra visita all’Hotel Barbieri: storici e rinomati ristoratori che hanno saputo far conoscere i prodotti del territorio dell’alto cosentino in tutto il mondo – punto di riferimento per Simona e per gli altri produttori.
In una bellissima terrazza che affaccia sul borgo ci siamo goduti un lauto pranzo introdotto dagli squisiti peperoni cruschi, prodotto tipico della tradizione lucana che è presente in tutta l’alta Calabria. Con un ultimo brindisi abbiamo salutato e ringraziato Simona per la giornata passata assieme.
La sera, mentre mi godevo il tramonto sul versante tirrenico ripensavo alle parole di Simona: “Qui abbiamo il nostro scenario che abbraccia un paesaggio unico: il Pollino, l'Orsomarso, il mare ionio, la valle d'Esaro e la piana di Sibari. Quindi è proprio... siamo in mezzo ad un terroir unico... Bisogna parlarne, io non conoscevo niente della mia Calabria” . L’emozione nelle parole di Simona mi ha fatto ripensare alle speranze riposte da lei ed altri giovani, quelle che un giorno non ci sia più il bisogno di andare lontano per accorgersi delle proprie bellezze. Magari già la prossima generazione, quella di Beatrice la figlia di Simona e Luigi.